Archivi tag: Jon Kabat-Zinn

Ritrovare la serenità. Come superare la depressione attraverso la consapevolezza.

kabat-zinn

M. Williams, J. Teasdale, Z. Segal, J. Kabat-Zinn
Ritrovare la serenità. Come superare la depressione attraverso la consapevolezza.
Raffaello Cortina Editore, 2010
ISBN: 9788860303332

Quando soffriamo di depressione, nulla di ciò che tentiamo di fare per uscirne sembra essere efficace. Più ragioniamo e cerchiamo di scuoterci, più ci troviamo a rimpiangere i “bei tempi”, a ripercorrere mentalmente gli errori del passato, a coltivare ansie per il futuro. E, come se non bastasse, per il fatto che il nostro ragionamento ci fa sentire ancora peggio, ci sentiamo in colpa. È un po’ come trovarsi nelle sabbie mobili e sprofondare sempre più nel tentativo di uscirne. Continua a leggere Ritrovare la serenità. Come superare la depressione attraverso la consapevolezza.

Pubblicità

Mindfulness: cos’è?

Sempre più spesso si sente parlare di percorsi ed esperienze di “mindfulness”, proposti sia da scuole di yoga e meditazione, sia all’interno di percorsi di promozione della salute mentale e di riabilitazione psicologica. Ma di cosa si tratta?
Partiamo dal termine. “Mindfulness” è talvolta usato come abbreviazione di “mindfulness meditation”, traducibile in italiano come “meditazione di consapevolezza”, a patto che ci si intenda su cosa è, in questa accezione, la “consapevolezza”.
Nella nostra società infatti quando si dice “consapevolezza” si pensa subito ad un prodotto della ragione, alla capacità di produrre un discorso sui propri comportamenti, di dare un senso alle proprie esperienze e ai propri vissuti.
In questa accezione, però, ci interessa quella che in lingua pali (la lingua indiana dei primi testi buddhisti) è detta “sati”, ossia un tipo di consapevolezza non concettuale, non discorsiva, bensì intuitiva, immediata, nel senso di non mediata da giudizi e pregiudizi. Altre traduzioni possibili, che pongono l’accento su diversi aspetti della mindfulness, tutti ugualmente importanti, sono “attenzione”, “attenzione sollecita”, “attenzione non giudicante”, “presenza mentale”, “piena presenza”.
Non è facile rendere a parole quella che è innanzitutto ad un’esperienza vissuta, e proprio per questo spesso si sceglie di non tradurre il termine inglese.

Ma a cosa può servire, a noi, nella nostra vita quotidiana, meditare? Può sembrare un qualcosa di molto “anni ’70”, da “fricchettoni”…
Pensate: non vi è mai capitato di lavare i piatti pensando solo al caffè che avreste bevuto subito dopo, in santa pace, godendovelo appieno? E poi di trovarvi con la tazzina in mano vuota, rendendovi conto che quasi non avete assaporato il tanto desiderato caffè, perché pensavate a questioni di lavoro, alle faccende domestiche in sospeso, o anche a cose piacevoli, come i programmi per la serata?
E non vi è mai successo di guidare lungo una strada conosciuta, per esempio il tragitto casa-lavoro, e di giungere alla destinazione accorgendovi che avete pensato a tutt’altro che alla strada? Magari qualche volta avete dovuto inchiodare perché è sopraggiunto un imprevisto di cui vi siete accorti all’ultimo secondo.

Perché non prestiamo attenzione alla nostra esperienza nel presente? In fondo questo istante, questo nostro istante, è per noi l’unica realtà. È ciò che c’è. Il passato non c’è più, e il futuro non c’è ancora.
Alcuni pensano di essere molto attenti a ciò che accade nel presente, ma senza accorgersene, lo contaminano con pregiudizi e aspettative, non percependolo quindi per ciò che realmente è. Pensiamo ad una persona che abbia avuto nella sua vita un evento che l’ha profondamente e negativamente segnata: un divorzio, un licenziamento, una rottura con un caro amico, magari le tre cose insieme. Può capitare che questa persona legga ogni nuova esperienza come conferma di alcuni “fatti”: “sono inadeguato”, “la mia vita è un casino”, “deludo tutti”, “vorrei cambiare, ma è impossibile”, “vorrei cambiare, ma non ne sono in grado”, “nessuno mi può capire”, “c’è qualcosa che non va in me”.
La parola “fatti” è tra virgolette non a caso: mentre per la persona in questione queste sono realtà assolutamente oggettive, in realtà non sono che pensieri. Pensieri che magari si trascinano per ore, con rimuginazioni che talvolta impediscono di prendere sonno alla sera.
La vita è imprevedibile e il cambiamento spaventa. Abbiamo bisogno di certezze, o quanto meno di un certo grado di prevedibilità. Uno degli strumenti che abbiamo è la costruzione di un’identità: “io sono una persona con certe caratteristiche, perciò in determinate circostanze reagisco così”. Se però mi sono costruito l’identità del perdente, del fallito, va da sé la coerenza che raggiungo non mi aiuta assolutamente a stare bene, anzi. Potrà anche succedere che, di fronte ad un evento positivo, una persona che ha di queste convinzioni si dica: “di sicuro non è merito mio, sono stato solo fortunato”, oppure: “se ce l’ho fatta io, era veramente facile”.
Viceversa, chi ha un’opinione di sé come persona sempre forte, efficiente, decisa, sempre nel giusto, difficilmente riuscirà a scendere a compromessi, ad accettare i fallimenti, o a integrare nella propria esperienza quotidiana il dolore o la tristezza.

Può essere utile, a questo punto, chiarire anche cosa la mindfulness non è:
Non è un modo per sfuggire dalla realtà: è piuttosto essere profondamente radicati nella realtà.
Non è una tecnica di rilassamento: può accadere di rilassarsi durante alcune pratiche, ma questo non è il loro scopo. C’è poi il rischio, se ci rilassiamo una volta, che nasca l’aspettativa di rilassarci sempre, e magari se ciò non accade ci innervosiamo ancora di più. Se ci rilassiamo, quindi, godiamoci il rilassamento; se non ci rilassiamo, stiamo nel presente, senza confrontarlo col passato.
Non è un modo per svuotare la mente: la mente, soprattutto all’inizio di una pratica meditativa, può essere affollata da pensieri, ma ciò non significa che “non stiamo meditando bene”: l’importante è cercare di non aggrapparsi ai pensieri nel tentativo di modificarli, tentare di lasciarli fluire, e imparare, pian piano, a guardarli come se fossero nuvole nel cielo. Se per esempio durante la pratica ci capita di pensare al fatto che dobbiamo fare la spesa, non giudichiamoci, ma prendiamo mentalmente nota: “ok, è emerso questo pensiero”, e gentilmente riportiamo la mente all’oggetto della nostra meditazione. E se non ci riusciamo? Non giudichiamoci per non essere riusciti!

La pratica della meditazione allena un’attenzione non giudicante allo svolgersi dell’esperienza momento per momento, da portare poi, gradualmente, nella vita di tutti i giorni. Non: “sono triste, quindi sono debole”, “sono triste, ed è colpa mia se non riesco a reagire”, “sono triste, eppure non ne ho motivo”… ma semplicemente: “in questo momento provo tristezza”.
La meditazione di consapevolezza aiuta a scoprire quali pensieri si presentano più spesso in modo automatico alla nostra mente, senza cercare di correggerli.
Da qui l’intuizione di utilizzarla nella cura di disagi psicologici. Il medico americano Jon Kabat-Zinn, della University of Massachusetts Medical School, ha cominciato nel 1979 ad applicare la mindfulness come trattamento terapeutico dell’ansia, dello stress e della depressione. Attualmente sono circa 17.000 i pazienti che hanno completato il suo programma, e grazie ai rigorosi studi scientifici con cui l’équipe ne ha provato l’efficacia, la pratica si sta diffondendo in tutto il mondo occidentale. In Italia hanno avviato progetti pilota due strutture pubbliche, l’Istituto Oncologico Veneto e l’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano.

 

(Photo by Lesly Juarez on Unsplash)