“Shame”: un film potente e toccante

In “Shame”, secondo lavoro del regista Steve Mc Queen, Brandon (Michael Fassbender, Coppa Volpi come miglior interprete maschile) è un uomo giovane, attraente, vive a New York e ha un buon lavoro.
All’apparenza, può sembrare un uomo di successo, ma ha un problema: soffre di sex addiction, dipendenza sessuale.

Per chi soffre di questo problema, il sesso è semplicemente un modo per sfogare l’ansia, una compulsione, un comportamento coatto che permette momentaneamente di tirare un sospiro di sollievo: non è nemmeno lontanamente imparentato con la dimensione del piacere. Vediamo infatti il protagonista sfogarsi indifferentemente con donne, sedotte o pagate, su chat erotiche, con pornografia d’ogni tipo, persino con uomini, nonostante nulla lasci intendere che sia bisessuale.

Nessuno intorno a lui sembra accorgersi di tutto ciò. La sua vita, in superficie, è perfettamente “normale”. A tratti pare che stia per essere “scoperto”, per esempio dal capo, che un giorno lo accoglie in ufficio dicendogli: “il tuo hard-disk è una fogna”, “osceno”. Ma poi il tecnico informatico formatta il PC e tutto torna come prima. Forse Brandon spera di essere in qualche modo scoperto e fermato? O forse lo crediamo noi spettatori, che vorremmo porre fine all’ansia che sentiamo salire man mano che la pellicola va avanti?

Fa anche capolino una donna che sembra realmente interessargli, la collega Marianne (Nicole Beharie), ma con la quale, per paura, non riesce ad entrare in intimità. Non si dà una seconda chance, né si concede il tempo per soffrire: semplicemente va avanti, sfogando la frustrazione nell’unico modo che conosce.

Il film è percorso da un’aura di sospensione: non succede nulla (o meglio, accadono solo situazioni che vengono percepite come ineluttabili), e non c’è spiegazione per nulla: perché Brandon sta così male? Come è arrivato a sviluppare questo comportamento patologico? Che rapporto ha con la sorella Sissy (Carey Mulligan), che viene a fargli visita all’inizio della storia? Perché sembra percepire questa visita come un’invasione? Anche Sissy è un’anima tormentata: qual è la fonte del suo dolore?

Nulla di tutto ciò viene affrontato. Per questo motivo, alcuni hanno criticato il film definendolo pretestuoso.
Da “non addetta ai lavori” posso dire che “Shame” mi è sembrato un film molto onesto: non offre una chiave di lettura di un comportamento, semplicemente lo descrive, ed è molto più angosciante che non erotico (nonostante le tante, inevitabili, scene esplicite). Non vuole essere né morale né immorale, ma neanche regalare un facile finale catartico. Non racconta propriamente una storia, è più una fotografia: non c’è trama perché chi, come Brandon, è intrappolato in una dipendenza, vive solo per soddisfare la sua pulsione, è intrappolato nel presente, e credo che questa scelta sia stata fatta per far sentire lo spettatore nella medesima condizione del protagonista.
È un film triste e molto duro, ma, a parer mio, anche molto bello, con una fotografia eccezionalmente adatta alla storia.
Che dire? Non vi resta che andare al cinema e giudicare voi stessi!

 

(Cover Photo: Michael Fassbender in “Shame”. Credit: Abbot Genser/Fox Searchlight Pictures)

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