Le “nuove psicopatologie”

Spesso si sente parlare di “nuove dipendenze”, o “nuove psicopatologie”. Di cosa si tratta? Perché sono “nuove”? Perché sono in così rapido aumento, sia come quantità sia come numero di persone coinvolte?

Innanzitutto preciso che non sono assolutamente tra i convinti che di ogni piccolo problema umano si debba creare una “malattia” (potete leggere il mio post sulla “sindrome natalizia”). È però innegabile che l’ambiente abbia una grande influenza sulla salute psicologica delle persone, e mai come oggi tutte le possibili accezioni di “ambiente” (i luoghi fisici, la società, i contesti relazionali) sono in rapida e caotica evoluzione. Tutto ciò non è per niente banale: ci richiede uno sforzo di adattamento non indifferente, considerando anche che, dal punto di vista biologico, noi siamo “Homo Sapiens anatomicamente moderni” (anche detti “Homo Sapiens Sapiens”), ossia una specie comparsa sulla Terra 200.000 anni fa: con le stesse identiche risorse neurocognitive di allora, dobbiamo far fronte ad un ambiente molto più complesso.

Tutti noi siamo naturalmente portati ad attuare delle strategie per far fronte alle sfide quotidiane che la vita propone (le cosiddette “strategie di coping”). Alcune volte, può accadere che si adottino comportamenti che al momento sembrano funzionali, ma che a lungo andare si rivelano fallimentari. Per esempio l’assunzione di droghe o alcool per sedare la rabbia, sfuggire alla realtà, o acquisire un momentaneo senso di autostima, sono strategie che immediatamente funzionano, ma, se attuate ripetutamente, conducono a una vera e propria dipendenza.

Un fenomeno in aumento, nell’ambito delle dipendenze, è quello della dipendenza da farmaci, in particolare da ansiolitici e ipnoinduttori (i cosiddetti “tranquillanti”, come le benzodiazepine) e da analgesici, come codeina e derivati. Ciò in parte deriva da un aumento delle prescrizioni da parte dei medici di base, i quali ovviamente agiscono in buona fede e confidano che i pazienti sappiano fare un uso moderato dei farmaci, attenendosi alle prescrizioni e ai foglietti illustrativi. Se da un lato è certamente vero che quantità e qualità del sonno sono importanti per una buona qualità della vita, e che è assolutamente necessario trattare il dolore, sia acuto che cronico, quello che spesso manca, sia da parte del medico che del paziente, è la consapevolezza che eliminare il sintomo talvolta non basta. Di questa situazione è in parte responsabile la nostra società, che vuole tutti attivi – anzi, iperattivi – sul lavoro, in casa, nel tempo libero, e non ci dà il tempo di stare male, né fisicamente, né psicologicamente, né tantomeno di riflettere, da soli o con un aiuto professionale, sul significato del nostro malessere. Bisogna subito “tornare in pista”, e il farmaco è chiaramente la soluzione più rapida.

Se ci si fermasse a riflettere, però, si scoprirebbe che l’insonnia, per esempio, può essere un sintomo di depressione. E l’ansia, a ben pensarci, non è altro che l’estremizzazione della paura, la quale è semplicemente un’emozione, e come tutte le emozioni è una nostra alleata, perché ci guida nel comportamento. In alcune occasioni, è estremamente utile che le emozioni inducano automaticamente un comportamento, senza che ne siamo consapevoli. Provate ad immaginare di trovarvi a piedi in mezzo a una strada trafficata: se vedete un’auto che corre verso di voi, senza pensare a nulla, correrete velocemente verso il più vicino marciapiede. Perdersi in congetture potrebbe esservi fatale. La consapevolezza delle proprie emozioni è però importante per modificare il proprio comportamento quando invece ci si rende conto che è disfunzionale. Se costantemente, di fronte alla paura di un esame universitario, evito di presentarmi, non mi laureerò mai.

Il problema di questi farmaci, oltre al fatto che agiscono sul sintomo senza poter lavorare sul reale disagio, è che talvolta possono creare dipendenza, fino alla comparsa di sintomi da astinenza in caso di mancata assunzione. Possono così aver luogo fenomeni di assuefazione, che portano gradualmente ad aumentare le dosi per ottenere il medesimo effetto.

Alcune persone, provando un senso di vergogna per questa situazione, non osano richiedere ulteriori prescrizioni al medico, e per ottenere le sostanze desiderate ricorrono al mercato illegale (enormemente incrementato dalla vasta offerta online), correndo oltretutto il rischio di acquistare sostanze non controllate e assai pericolose per la salute.

Altri comportamenti patologici favoriti dalla nostra società sono quelli correlati ad un mancato controllo degli impulsi: il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo, la sex addiction. Questi comportamenti sono correlati ad un immaginario socialmente accettato, e anzi desiderabile: essere ricchi e di successo, essere alla moda, avere un’intensa vita sentimentale e sessuale.
In tutti questi casi, internet può esacerbare i sintomi di chi già soffre di questi problemi, ma anche costituire un fattore scatenante per le persone predisposte. Basti pensare ai casino online che offrono un bonus per il primo accesso, ai negozi virtuali che incentivano sempre nuovi acquisti offrendo sconti e abbinando concorsi allettanti alla vendita dei loro prodotti, ai numerosissimi siti che contengono materiale pornografico, anche gratuito.

Oltre ad essere uno strumento per soddisfare altre compulsioni, lo stesso web, ormai è noto, può creare dipendenza. Ci si connette “solo per controllare la posta” e poi si passano ore incollati allo schermo.
Vi sono due fattori che rendono il web potenzialmente psicopatogeno. Da un lato, la ricchezza di informazioni disponibili, di gran lunga superiore alla quantità di informazioni che ciascuno di noi è in grado di leggere e gestire, genera un sovraccarico cognitivo che può favorire una compulsione alla ricerca e all’organizzazione dei dati.
Il secondo fattore è la facilità con cui si possono instaurare relazioni sociali superficiali che, senza eccessivo coinvolgimento, possono apparire estremamente gratificanti. Basti pensare ai ragazzi che hanno 300, 400, o 500 “amici” su Facebook e passano i pomeriggi a controllare cosa questi “facciano”, senza frequentarli quasi mai dal vivo.
In questi casi si verifica un progressivo aumento del tempo trascorso online, e parallelamente, quando si è scollegati, cresce il senso di malessere e di agitazione (una condizione paragonabile all’astinenza).

Ciò che sostiene ogni comportamento compulsivo, dal punto di vista neurobiologico, è l’aumento della dopamina nel circuito cerebrale legato ai meccanismi di ricompensa: il che fa sì che ci si senta appagati e motivati a ripetere nuovamente l’azione, da qui la progressiva dipendenza. Ripetere un certo comportamento ci fa “sentire bene” e progressivamente il nostro cervello si abitua a questo assetto neurotrasmettitoriale, facendoci “sentire male” quando non lo facciamo.

La soluzione? Chiaramente è impossibile invocare un ritorno “ai bei tempi che furono”: la società evolve rapidamente, e questo è un dato di fatto. E però vero che una famiglia presente, che aiuti fin da bambini a riconoscere e gestire le proprie emozioni senza temerle, una rete di amicizie autentiche, con cui condividere i propri vissuti e svolgere attività realmente gratificanti, e un solido senso di comunità, che porti ad investire tempo ed energie a favore del prossimo, non possono che giovare alla nostra salute mentale.

 

(Photo by Hello I’m Nik on Unsplash)

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1 commento su “Le “nuove psicopatologie””

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